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Trent'anni di carcere comminati a Luigi Chiatti

Trent'anni di carcere invece dei due ergastoli che gli erano stati comminati nel processo di primo grado. Così Luigi Chiatti, 26 anni, colpevole e reo confesso della distruzione delle vite innocenti di Simone Allegretti, quattro anni, e Lorenzo Paolucci, undici, uccisi il primo il 4 Ottobre del 1992 e il secondo il 7 Agosto dell'anno successivo, ha ottenuto dalla giustizia lo spiraglio che gli consentirà (legge alla mano) di tornare libero nel 2004 e di riprendere a soli 35 anni una vita «normale». In mezzo alla gente normale, a sfiorare anche solo con lo sguardo un po' assente, e per questo terrificante, altri piccoli Simone e Lorenzo. Eh sì, perché i trent'anni comminati al geometra di Foligno potrebbero, coi benefici della buona condotta, scendere a ventidue effettivi e, una volta scontata la metà della pena, l'assassino di Simone e Lorenzo potrebbe accedere alla cosiddetta semilibertà. Luigi Chiatti, arrestato nell'Agosto del 1993 dopo mesi di indagini vane e dopo il secondo omicidio, potrebbe, o potrà, quindi «godere» della prima libera uscita nel 2004, dopo appena undici anni di reclusione. «È giustizia questa?», si sono chiesti disperati i genitori di Simone e Lorenzo, accentuando il diffuso sentimento di disagio che ha colto l'opinione pubblica dinanzi ad una sentenza che ha stravolto il giudizio di primo grado, nel quale Chatti era stato defininito capace di intendere e volere e condannato alla pena la cui fine è contenuta in una parola di tre lettere: mai. «È giustizia quella che consente a una persona che ha ripetuto più volte che se esce di prigione ripeterà nuovamente quello che ha fatto a Lorenzo e Simone di ipotizzare un futuro da persona libera?». La domanda sembra retorica, ma contiene purtroppo tutta l'amarezza e lo sconcerto per una decisione che, utilizzando il parere scientifico di sette periti che smentivano quello di altri quattordici, ha statuito la seminfermità mentale di Luigi Chiatti, diventata un'attenuante. E permette a questo ragazzo, verso il quale è davvero difficile spendere una parola di comprensione, di tornare a fantasticare sul suo mondo di pedofilo frustrato, di sghignazzatore e narratore lucido delle sue gesta criminali. Oggi il geometra killer, figlio adottivo di un anziano medico e della moglie, tolto da un brefotrofio di Narni a sette anni, riconosciuto in televisione dalla mamma naturale, Marisa Rossi, che ha tentato più volte di visitarlo in carcere, senza successo, guarda al futuro con agghiacciante tracotanza, la stessa che aveva mostrato più volte in carcere e sulla quale Visto è in grado di riferire ai propri lettori in esclusiva. «È un solitario, chiuso in se stesso, ma beffardo, con lo sguardo ironico e strafottente, rifiuta il cibo se non è di suo gradimento, ha sempre qualcosa su cui puntualizzare e ripete continuamente: "Uscirò da qui, vedrete che uscirò e prima di voi"». Così, in un colloquio avvenuto durante un permesso di cinque giorni, il primo che il Tribunale di Sorveglianza dì Spoleto gli aveva concesso nel mese di Dicembre, si era espresso con il cronista Luigi Schiavo, uno dei tre ragazzi condannati dieci anni fa all'ergastolo (ma che si sono sempre dichiarati innocenti) per l'omicidio di due bambini in quello che fu definito il delitto di Ponticelli e detenuti nello stesso braccio del carcere di massima sicurezza di Spoleto dove Chiatti sconta la sua, oggi forse troppo breve, pena. «Chiatti, lui è un personaggio che noialtri detenuti tendiamo ad evitare», ha raccontato Schiavo. «In pochi si avvicinano alla sua cella, anche perché è guardato a vista. Il suo modo di fare sprezzante irrita e rende la sofferenza del carcere terribile, soprattutto per chi, come noi, grida la propria innocenza e non vede futuro.» Parole pesanti e drammatiche che, rilette oggi a distanza di quattro mesi e alla luce della decisione della Corte d'Assise d'Appello di Perugia, rendono lo scenario ancora più fosco e il dolore dei genitori dei due bambini uccisi ancor più raggelante. Parole che forse in qualche modo spiegano (senza assolutamente giustificarlo) il gesto violento di cui si sarebbe resa protagonista una guardia carceraria del carcere di Perugia che, dinanzi alla strafottenza del geometra, avrebbe usato le maniere pesanti, picchiando il ragazzo autore dei due odiosi omicidi.
«Quello lì matto? Ma sapete quanto tempo ha impiegato ad uccidere mio figlio? Quaranta minuti di torture e sofferenze, l'andirivieni con la macchina, il piano lucido e meticoloso di chi voleva sopprimere una vita umana per uno scopo preciso», dice con la voce strozzata e lo sguardo fisso a terra Franco Allegretti, il papà di Simone, ex benzinaio che ha dovuto chiudere la sua pompa perché non sopportava più d'essere guardato o con la commiserazione o con la curiosità morbosa di chi andava a fare il pieno da lui perché era il padre della vittima del «Mostro». Il suo è un atto d'accusa senza mezzi termini verso una giustizia capace di abbattere un verdetto esemplare dietro il paravento di tre parole, vizio parziale di mente, che nella loro freddezza acuiscono il dolore di chi dal giorno dell'uccisione del proprio figlio sta impazzendo, davvero, di dolore. «Finalmente mi hanno capito», ha dichiarato il «Mostro di Foligno» ai suoi avvocati affinché trasmetessero il Chiatti pensiero all'esterno. Un commento apparentemente sobrio ed equilibrato, come di chi sapeva di aver ragione e finalmente veda riconosciuta la sua teoria. È pazzesco tutto questo? Sì, verrebbe da rispondere. Ma allora si fa il gioco proprio di Chiatti, che lucidamente ha intessuto la sua trama difensiva presentandosi come matto, depistando e tenendo i suoi esaminatori continuamente nell'imbarazzo di dover registrare frasi allucinanti con il dubbio (divenuto certezza per i primi quattordici periti) che non già di un matto o di un seminfermo di mente si trattava, ma di un criminale lucido in cerca di alibi e salvezza. «La frase "Se esco lo rifaccio" è la dimostrazione della sua lucidità, non della sua pazzia», aveva dichiarato la dottoressa Maria Rita Parsi, perito dell'accusa ai tempi del processo di primo grado. Nella seconda lettura questa teoria è franata miseramente. E chi ha subito il dolore della perdita di una creatura innocente, ora, ha il diritto di protestare anche vivacemente, o il rispetto per la sentenza deve essere totale, andando anche al di là dei sentimenti? «Gli taglierei le mani e i piedi, per impedirgli di camminare e di toccare le sue vittime, poi gli strapperei gli occhi per vietargli anche il minimo sguardo su di essi ed infine lo mutilerei del sesso. Così, ridotto ad un tronco umano, gli consentirei di vivere per capire e soffrire quello che hanno sofferto le sue due povere vittime.» ha detto tagliente Luciano Paolucci. papà di Lorenzo. Ma è lecito chiedersi: quelle barbarie annunciate sarebbero state manifestate se davvero la giustizia avesse, come si dice, seguito il suo corso senza scorciatoie inspiegabili ed immotivate? E come non comprendere il dolore di Franco Allegretti, quando carica di minacce il possibile ritorno nella villetta di Foligno dei genitori adottivi di Luigi Chiatti? Il cronista era stato a casa di Chiatti qualche mese fa, aveva atteso la dottoressa che dal 1993 sostituisce il medico padre adottivo di Luigi, fuggito chissà dove per la vergogna, e il cui studio si trova proprio al piano terra di quella casa dove il piccolo Simone aveva dovuto subire piangendo la violenza di Luigi. Volevamo parlare con la dottoressa, chiederle di visitare l’abitazione, capire qual era il futuro di quella villetta, se mai sarebbe stata posta in vendita o se v'erano altri progetti. La dottoressa (non ne facciamo il nome perché in questa storia lei non c'entra) aveva cortesemente rifiutato qualunque dialogo e s'era infilata nella casa dell'orrore a svolgere la sua funzione. Oggi a Foligno si dice che i coniugi Chiatti torneranno a vivere lì. Ma c'è chi interpreta questo gesto come l'ulteriore sfida di chi, pur avendo compreso prima del secondo omicidio che qualcosa nella vita di Luigi Chiatti non andava, aveva scelto di tacere. Come motivare infatti i sacchi pieni di pannolìni, scatolette, vestitini trovati dalla mamma adottiva, il cui unico pensiero pare fosse l'ordine maniacale nel quale doveva vivere Luigi? E, d'altra parte, come spiegare la superficialità dell'assistente sociale che, raggiunta telefonicamente in ferie dalla mamma di Luigi che chiedeva cosa dovesse fare dinanzi a quei «segnali inquietanti» trovati nella soffitta, rispose che era un problema di «carenze affettive»? Oggi tornano a Foligno? E quando Luigi Chiatti usufruirà della prima semilibertà, tornerà da loro, nella villa del primo delitto? A Franco Allegretti, intanto, sono stati tolti i fucili da caccia: diverrà un sorvegliato speciale per consentire alla famiglia Chiatti di vivere senza pericolo nella casa di loro proprietà. Chi dobbiamo scomodare per descrivere questa situazione paradossale? Forse bastano le crude parole del padre di Lorenzo Paolucci per dire quale ferita profonda si è riaperta nella coscienza collettiva: «La prossima vittima del "Mostro di Foligno" peserà sulla coscienza dei giudici che l'hanno voluto aiutare e, come dice lui stesso, capire.»

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