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Il processo della "saponificatrice" di Correggio

Il processo della "saponificatrice" di Correggio si svolge davanti a un pubblico numeroso, ma non eccessivo. Il primo giorno, in fondo alla grande aula delle Assise di Reggio Emilia, c'era persino un piccolo spazio vuoto e i carabinieri messi di guardia all'ingresso potevano di tanto in tanto fare due passi in punta di piedi, per sgranchirsi le gambe. Ma non è che il processo si svolga in un'atmosfera d'indifferenza. Anzi, si può dire che rare volte una vicenda giudiziaria abbia suscitato un interesse così vivo e appassionato. A Correggio, per non uscire dall'atmosfera di stregoneria nella quale si muovono le figure di questa orribile storia, si dice chiaramente che il processo della "saponificatrice" è stato «affatturato». E in realtà la stessa ricostruzione dei delitti fatta in un primo tempo dalla polizia dava ad Abelardo e ad Adelmo un ruolo molto importante. Poi, nel corso della lunga istruttoria, il numero degli imputati si ridusse a due: Leonarda Cianciulli e il figlio maggiore, Giuseppe. Il che, effettivamente, non convince nessuno. I delitti che formano la materia del processo di Reggio Emilia sono avvenuti all’incirca tra il Novembre 1939 ed il Dicembre 1940. Parecchi anni prima l'impiegato dell'ufficio del Registro Raffaele Pansardi era stato trasferito a Correggio e aveva affittato un appartamento al terzo piano di una vecchia casa, in via Cavour 11 /A, abitava con la moglie Leonarda Cianciulli e con i quattro figli. Venivano da Laurana e avevano perduto tutti i loro averi nel terremoto. Raffaele Pansardi fumava allora tre sigarette popolari al giorno (c'è una testimonianza che lo precisa), dormiva su un materasso disteso a terra ed i suoi figli giravano per il paese infagottati nei vecchi abiti regalati dai vicini. La loro miseria era commovente e tutti si erano mostrati larghi di aiuti verso i "terremotati". Poi, con il denaro riscosso a risarcimento dei danni, Raffaele Pansardi acquistò i mobili più necessari; Leonarda Cianciulli, dal canto suo, iniziò un commercio di roba usata; ebbe fortuna, le condizioni di vita della famiglia Pansardi migliorarono rapidamente. Nei suoi traffici si dimostrò abile, intelligente, piena di iniziativa. Era una donna strana; talvolta il suo modo di agire faceva nascere il sospetto che non tutte le sue facoltà fossero normali; a nessuno, tuttavia, risultava antipatica. Sulla sua fedeltà coniugale non si poteva giurare. I più informati sostenevano che il cascinaio Abelardo Spinabelli fosse il suo amante. È certo, peraltro, che essa fu sempre un'ottima madre e che i guadagni del suo piccolo commercio avevano un notevole peso nel bilancio familiare. Al tempo in cui avvenne il primo delitto, il signor Raffaele Pansardi fumava "Macedonia" e non era più costretto a limitare il numero delle sigarette quotidiane; ogni sera, immancabilmente, si recava al cinematografo; aveva una domestica fissa. Il figlio maggiore era iscritto alla facoltà di Lettere dell'università di Milano; era occupato come istitutore al Collegio nazionale di Correggio e arrotondava lo stipendio dando lezioni private; il secondo e il terzogenito studiavano al ginnasio; la bambina ultima nata frequentava ancora l'asilo, in un istituto di suore. Da parecchio tempo Leonarda Cianciulli aveva stretto rapporti di amicizia con tre donne di Correggio: Ermelinda Faustina Setti detta “Rabitti”, Clementina Soavi e Virginia Cacioppo vedova Fanti. Queste tre donne vivevano sole. La Setti aveva avuto in gioventù una figlia illegittima che era morta qualche anno prima; la Soavi era una vecchia zitella che si occupava anch'essa del commercio di abiti usati e gestiva una specie di asilo privato custodendo una dozzina di bambini nelle ore in cui le mamme erano al lavoro; la Cacioppo, delle tre, era l'unica che godesse la fama di essere danarosa. Non era esatto: in realtà essa durava fatica a sbarcare il lunario; ma era stata una soprano lirica di un certo nome; aveva cantato spesso all'estero, specie in America, in Francia e in Egitto; i capelli ossigenati, la vistosa eleganza dei suoi abiti e certe bizzarre manie dalle quali non era riuscita a staccarsi la facevano ritenere ricca. In particolare, la gente di Correggio era convinta ch'essa possedesse molti e preziosi gioielli. Nel Novembre del 1939 “Rabitti”, cioè la vecchia Ermelinda Setti, cominciò a fare strane confidenze alle sue conoscenti. Disse d'essere alla vigilia di prender marito. Il suo antico amante, convinto da una buona signora che si interessava molto di lei, aveva finalmente deciso di sposarla. La sera dell'8 Dicembre si recò dal parrucchiere e gli affidò i suoi capelli bianchi per la permanente, quindi fu vista per la ultima volta entrare nella casa di via Cavour 11 /A. Il giorno dopo, Leonarda Cianciulli cominciò ad offrire in vendita i mobili, la biancheria, i vestiti di “Rabitti”: ne aveva avuto incarico dalla proprietaria prima che partisse per raggiungere lo sposo in un paese dell'Umbria che desiderava restasse a tutti ignoto. La Setti aveva venduto anche la casa di sua proprietà, ricavandone quarantamila lire e aveva saldato un debito di diecimila lire contratto qualche mese avanti. Nell'Agosto 1940 anche Clementina Soavi confidò piangendo alle amiche d'essere in procinto di compiere un grave passo. Una signora che le voleva bene le aveva procurato il posto di direttrice di un collegio fiorentino. Tra qualche giorno sarebbe venuto un vescovo a prenderla, in automobile; ed essa era felice d'aver trovato un'occupazione che le permetteva di vivere senza stenti, ma nello stesso tempo era commossa all'idea di dover lasciare, forse per sempre, Correggio. Il 5 Settembre Clementina Soavi scomparve. Qualche giorno dopo Leonarda Cianciulli iniziò la vendita degli effetti personali e dei mobili, ripetendo d'averne avuto incarico dalla signora direttrice del collegio fiorentino. Fu a quell'epoca che cominciarono a correre le sinistre voci sulla fine delle due donne; ma sia la Setti che la Soavi non avevano parenti e nessuno si prese il fastidio di richiamare la attenzione della polizia sulle misteriose sparizioni. Due mesi dopo anche l'ex cantante Virginia Cacioppo annunciò di essere alla vigilia della partenza. Una sua cara amica aveva ottenuto per lei un posto di magazziniera all'Amministrazione dei monopoli di Firenze e si era offerta di prestarle le diecimila lire che le mancavano per completare la cauzione richiesta. Il 29 Novembre la signora Cacioppo sale dalla padrona di casa per la visita di congedo; appare molto commossa; chiede se non abbia una rivoltella da prestarle per qualche giorno. Il mattino seguente la vedono per l'ultima volta, mentre varca la soglia di casa Pansardi, e poiché, ventiquattr'ore dopo Leonarda Cianciulli inizia la vendita dei mobili, dei materassi, dei vestiti, la voce che le tre donne siano state soppresse si fa generale e insistente. La signora Fanti, cognata della Cacioppo, ne parlò al maresciallo dei carabinieri di Correggio, il quale eseguì qualche indagine e concluse che non c'era nulla di vero in quelle voci. Ma la signora Fanti non si arrese. «La giustizia deve ringraziare me. Sono io che ho scoperto tutto». Ripeteva spesso e non aveva tutti i torti. Rimase acquattata per intere giornate sotto un portone di via Cavour; mandò confidenti a bazzicare nella casa della Cianciulli; interrogò centinaia di persone nella città e nelle campagne vicine. Stabilì che Leonarda Cianciulli aveva venduto tutte le scarpe, tutti i vestiti e l'unico cappotto d'inverno della cognata: con quali abiti essa si era dunque recata a Firenze? Il questore di Reggio Emilia giudicò che i sospetti della signora Fanti potevano essere fondati. Si incaricò personalmente delle indagini. Per prima cosa diramò a tutte le banche della regione l'elenco dei titoli ch'erano appartenuti alla ex cantante. (Qualche anno prima lo aveva essa stessa affidato alla cognata, entrando in una clinica, per una grave operazione chirurgica.) Verso la metà del Gennaio alla succursale di Reggio del Banco di San Prospero si presenta don Adelmo Frattini, parroco di San Giorgio in Correggio, e offre in vendita un pacchetto di titoli tra i quali è anche il buono del tesoro serie H, numero 241985. È uno di quelli compresi nell'elenco. Il sacerdote disse d'averlo avuto dal cascinaio Abelardo Spinarelli. L’uomo affermò d'averlo a sua volta ricevuto da Leonarda Cianciulli. La donna viene arrestata. Si compiono ricerche nella sua casa: dal pozzo nero si estrae una dentiera; sul solaio si scopre un pugno d'ossa frantumate. I medici stabiliscono che si tratta di ossa umane. Leonarda Cianciulli confessa quasi subito, ma la sua prima versione dei fatti differisce molto da quella che fece in seguito al giudice istruttore. Essa disse d'aver ucciso di sua mano la Setti, d'averne fatto a pezzi il cadavere e d'averlo distrutto facendolo bollire in un calderone, assieme ad una forte quantità di soda caustica. Le carni saponificate della sua prima vittima erano state poi disperse con la spazzatura; le ossa, ridotte in frantumi, erano state gettate nel pozzo nero. Non volle però spiegare quale fosse stato il movente del delitto. Disse solo che le trentaduemila lire che la Setti aveva indosso erano finite nelle mani dello Spinabelli. Quanto alla seconda e alla terza vittima, era stato lo stesso Spinabelli ad ucciderle dopo essersi nascosto d'accordo con lei in uno stanzino buio. I loro cadaveri erano stati poi squartati rapidamente dal cascinaio, il quale sino a pochi anni prima era stato un macellaio rinomato per la forza e per l'abilità, e alla sua complice era rimasto solo il compito di farne scomparire i pezzi, saponificandoli. Abelardo Spinabelli venne arrestato. Nella sua abitazione si rinvenne un cofanetto ch'era appartenuto alla Cacioppo; si accertò che effettivamente la saponificatrice aveva consegnato a lui il denaro tolto alla Setti e, in parte, anche quello rapinato alle altre due vittime. Ma i due avevano avuto parecchi affari in comune, regolati da una contabilità estremamente complicata. Era difficile stabilire se con quel denaro la Cianciulli avesse saldato un debito, o dato al complice la parte che gli spettava. Un giorno l'assassina asserì d'aver consegnato allo Spinabelli anche gli oggetti preziosi tolti di dosso alle sue vittime. Li aveva chiusi in una scatola di latta e la scatola era stata poi incastrata in un blocchetto di cemento. L'intesa era che i gioielli fossero consegnati a don Adelmo Frattini, per nasconderli. Anche il sacerdote venne arrestato, ma sulle prime negò recisamente. Fu soltanto dopo parecchi interrogatori che si decise ad indicare il nascondiglio: il blocco di cemento, grande come un mezzo mattone, era stato nascosto nella cassetta delle elemosine della chiesa di Vezzano sul Crostolo. Lo stesso don Adelmo ne aveva levato e poi avvitato nuovamente il coperchio. Si infranse il mattone di cemento e si trovò che conteneva effettivamente i gioielli della Setti, della Soavi e della Cacioppo. Su di essi erano evidenti tracce di sangue. Questo fatto, unito alla circostanza che gli oggetti preziosi erano stati celati dal sacerdote in quello straordinario nascondiglio circa un mese dopo l'arresto della Cianciulli e dello Spinabelli, quando era ormai radicata in tutti la certezza che i due avessero compiuto assieme i delitti a scopo di rapina, portò alla incriminazione di don Adelmo Frattini per favoreggiamento e ricettazione. La Cianciulli e lo Spinabelli furono denunciati all'autorità giudiziaria per omicidio premeditato e rapina. Il figlio della saponificatrice ebbe l'imputazione minore di favoreggiamento. Alcuni mesi dopo, quando l'istruttoria del processo era quasi terminata, la Cianciulli ebbe un pentimento. Chiese un colloquio straordinario con il giudice e gli narrò che, avendo sognato quella notte la Vergine con un bambino nero in braccio ed interpretando quel sogno come un invito a dire intera la verità, si era decisa a confessare d'aver mentito in tutte le precedenti deposizioni. Spinabelli e il prete erano innocenti. Essa sola aveva ucciso, squartato, saponificato i cadaveri. L'istruttoria dovette ricominciare da capo. Appariva assolutamente impossibile che quella donna piccola ed esile avesse potuto avere la forza fisica necessaria per compiere da sola quei tre spaventosi delitti; così venne ad aggravarsi la posizione dei figlio maggiore della saponificatrice, sospettato ora non più di favoreggiamento, ma di complicità. Il cascinaio e il sacerdote si trovarono a dover rispondere soltanto di ricettazione; ma poi sopravvenne un'amnistia e si levarono anche il fastidio di quell'imputazione. A Correggio, la maggior parte della gente aveva preso male quell'inaspettato colpo di scena. Quasi tutti continuano a pensare che la prima versione fosse quella vera. Il lungo racconto che Leonarda Cianciulli fece per giustificare l'uccisione delle tre donne fu senza dubbio di enorme interesse. Dopo aver sognato la Vergine con il bambino nero in braccio e avere, di conseguenza, discolpato il cascinaio Abelardo, essa era stata rinchiusa nel manicomio criminale di Aversa, dove aveva avuto il tempo di scrivere le sue memorie, che riempirono complessivamente oltre settecento pagine dattiloscritte, divise in sei grossi fascicoli. Il titolo di quest'opera monumentale è "Confessioni di un'anima amareggiata". La materia risulta una narrazione minuta dei fatti che portarono la Cianciulli a commettere i tre delitti e la descrizione di quell'orrendo lavoro di smembramento, di bollitura, e di dispersione. È l'opera di una pazza, si diceva, ma di una pazza estremamente lucida. Perché uccise, dunque, la saponificatrice? Essa intese di compiere dei sacrifici umani propiziatori. Ventisette anni prima, sposando Raffaele Pansardi, si era ribellata alla volontà della madre che l'aveva destinata invece a un cugino; e la madre, in punto di morte, l'aveva maledetta, predicendole che tutti i suoi figli sarebbero morti prima di lei. Infatti Leonarda aveva dato alla luce diciassette creature, tredici delle quali le erano mancate nei primi mesi di vita. Ogni volta che le capitava di sognare la propria madre, era certa che la morte le avrebbe strappato uno dei suoi figli. Per vincere il maleficio la Cianciulli aveva tentato ogni sorta di esorcismo e di pratiche di stregoneria. Ma la maledizione materna si era mostrata sempre invincibile. La morte si sarebbe dunque impadronita anche dei quattro superstiti? Quando il maggiore dei suoi figli cominciò a frequentare il liceo e l'università, Leonarda Cianciulli si dedicò alla lettura di molti dei suoi libri. Apprese così dei sacrifici umani espiatori compiuti per placare le ire degli dei crudeli e si convinse che quella era la strada che anche lei avrebbe dovuto percorrere per salvare la vita delle sue creature minacciate. Doveva offrire alla morte una vita umana in cambio di ognuna di quelle che intendeva salvare. Tuttavia non si decise subito: anche a lei il rimedio sembrava un po' forte. Un giorno le capitò tra le mani il libro di un americano. “Il mistero della 5° strada”. «Nel libro c'era spiegato bene» dice la Cianciulli «come si doveva fare.» Si convinse d'essere capace e mise definitivamente da parte ogni scrupolo. Così venne ammazzata la Setti. La Soavi che, a detta della saponificatrice, era al corrente della cosa e credeva fermamente nella rinascita dopo la morte, pregò essa stessa la sua carnefice di ucciderla. Nei riguardi della Cacioppo l'assassina disse d'aver avuto qualche esitazione, visto che nei due primi esperimenti non era assolutamente riuscita a far risuscitare le sue vittime. Nelle Confessioni di un'anima amareggiata si legge anche di torte fatte di sangue umano mescolato a marmellata, cannella ed essenza di vaniglia, cosparse poi di polvere d'ossa e offerte alle amiche; come si accenna alle candele che la saponificatrice avrebbe fabbricato con il grasso delle sue vittime affiorante nell'immondo calderone. La Corte stabilì che Leonarda Cianciulli era l'unica responsabile di quei turpi crimini e la condannò a trent'anni di carcere e a tre anni di manicomio. Morì nell’ospedale psichiatrico giudiziario per donne di Pozzuoli, il 15 Ottobre 1970, stroncata da apoplessia celebrale.

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