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Antonio Lo Bianco e Barbara Locci

La notte del 21 Agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore siciliano di 29 anni, sposato e padre di tre figli e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, di origini sarde. I due erano amanti, la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Al momento dell'aggressione sono intenti nei preliminari amorosi. Sul sedile posteriore dorme Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma ed esplode complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata, quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo, la morte sopravverrà per le emorragie seguenti alle ferite inferte. Verranno repertati otto bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester serie H (ad indicare la lettera punzonata sul fondo dei bossoli). Natalino Mele si risveglia al primo colpo esploso, ma non sarà mai in grado di asserire con certezza di aver visto chi aveva in mano la pistola. Qualcuno lo caricherà in spalle subito dopo il delitto e lo condurrà attraverso la campagna, cantandogli "La tramontana", una canzone molto di moda quell'estate, fino a lasciarlo in via Vingone, a due chilometri di distanza, davanti ad un casolare nel comune di Campi Bisenzio. Il padrone di casa viene svegliato attorno alle due di notte dal bambino che gli dirà: "aprimi la porta che ho sonno e ho il babbo malato a letto. Dopo mi accompagni a casa, perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina". Le indagini conducono inesorabilmente al marito della donna, Stefano Mele, 49enne manovale originario di Cagliari, che si sospetta possa aver commesso il delitto per gelosia. Questo elemento è tuttavia reso poco plausibile dal fatto che lo stesso Stefano Mele aveva più volte in passato esternato un temperamento decisamente succube, a esempio ospitando in casa sua per diverso tempo Salvatore Vinci, suo amico e amante della moglie, Barbara Locci, che peraltro non era nuova a comportamenti promiscui, al punto di venir soprannominata in paese "l'ape regina". Inoltre una perizia psichiatrica accerterà che l'uomo è affetto da ritardo mentale, tanto che in sede processuale gli sarà riconosciuta la seminfermità di mente. In ogni modo Stefano Mele, dopo aver dapprima negato, poi coinvolto altre persone, ammette e confessa di aver commesso il delitto; viene condannato a 16 anni di carcere. Resta tuttavia il mistero della pistola, la Beretta calibro 22 Long Rifle che Stefano Mele dichiara di aver "gettato via" dopo aver commesso il delitto, ma che non viene trovata dai carabinieri nelle zone circostanti al luogo del delitto.

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